Scuola e salute mentale. In uno degli articoli pubblicati nel numero 20 della Rivista COBAS scuola (“Il paradosso della vulnerabilità”), si segnalava l’appello dei presidenti dell’associazione della Società Italiana di Neuro-Psico-Farmacologia (SINPF), per promuovere l’ingresso degli psichiatri nelle scuole “I medici psichiatri e la salute mentale devono tornare nelle scuole, nel periodo della vita in cui nel 50% dei casi iniziano a comparire i disturbi mentali” e di come il Collegio nazionale dei direttori dei Dipartimenti di Salute mentale (DSM), alla luce dell’indagine IPSOS dell’ottobre 2024, sul disagio mentale della popolazione, affermasse addirittura essere indispensabile “attuare interventi di prevenzione in tutte le fasce di età, fin dalla gravidanza, con particolare attenzione a stili di vita e contesto familiare […]”. Alla luce di tali affermazioni si paventava, nell’ articolo, la possibilità che le scuole venissero usate come luoghi per diagnosticare precocemente “malattie” mentali in direzione di una omologazione degli studenti, della standardizzazione degli apprendimenti e della normalizzazione dei “diversi” . Oggi, quel timore rischia di diventare realtà, visto che, nella legge di bilancio 2026, si prevede un aumento dei fondi per il sostegno psicologico nelle scuole, con un fondo di 10 milioni di euro per il 2025 e di 18,5 milioni di euro a partire dal 2026, per potenziare il servizio di supporto psicologico agli studenti. Questa misura, infatti, mira a rendere la figura dello psicologo scolastico una presenza strutturale nel sistema educativo italiano, superando l’approccio episodico e garantendo un accesso più uniforme al servizio, in modo da consentire, con l’aumento dei fondi, non solo di “migliorare” la qualità della vita degli studenti, le loro capacità relazionali e il rendimento scolastico ma, come si prevedeva, di andare oltre le lo sportello di ascolto, perché lo psicologo non solo si occuperà di sviluppare competenze cognitive, emotive e relazionali nei giovani, ma supporterà il personale scolastico e i docenti. Dunque, la scuola rischia di diventare una palestra di addestramento per la medicalizzazione della “diversità”, una medicalizzazione concettuale, perché sempre più si tenderà ad utilizzare anche in ambito scolastico il linguaggio medico per definire qualcosa che medico non è, e una medicalizzazione interazionale perchésidescriveranno e interpreteranno le relazioni tra le persone (studenti, docenti e personale scolastico) attraverso una lente medica, con il risultato di patologizzare comportamenti o emozioni che costituiscono la normalità della vita, non anomalie disfunzionali, contribuendo a definire con categorie mediche, aspetti che fino a quel momento non erano così categorizzati. In tal modo il sistema educativo, invece di promuovere l’apprendimento, creerà sempre più dipendenza e controllo, definendo la realtà e influenzando il comportamenti, più che risolvendo problemi, conflitti e contraddizioni.
I dati ISTAT. I dati ISTAT, in effetti, indicano un aumento delle/degli alunne/i con disabilità che frequentano le scuole italiane di ogni ordine e grado: quasi 359 mila nell’anno scolastico 2023-2024, il 4,5% del totale degli iscritti (+6% rispetto al precedente anno scolastico), 75mila in più negli ultimi cinque anni (+26%). Il problema più diffuso è la disabilità intellettiva, che riguarda il 40% degli studenti con disabilità, quota che cresce nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, attestandosi rispettivamente al 46% e al 52%; seguono i disturbi dello sviluppo psicologico (35% degli studenti), questi ultimi più frequenti nella scuola primaria (39%) e nella scuola dell’infanzia (63%). I disturbi dell’apprendimento e dell’attenzione riguardano quasi un quinto degli alunni con disabilità; entrambi sono più diffusi tra gli alunni delle scuole secondarie di primo grado (rispettivamente il 24% e il 20% degli alunni). Di fronte a tali dati, per rispondere alle diverse esigenze di alunni “complessi”, la scuola ritiene essenziale il ricorso a scienze mediche e sociali, quali psicologia e neuropsichiatria, e gli stessi docenti delegano a tali figure la gestione e l’intervento nei confronti di studenti “difficili”, in quanto leggono la realtà sempre più con i soli occhi della diagnosi clinica, contribuendo, però, in tal modo, ad una complessiva svalutazione delle competenze specifiche della classe docente. Se per comprendere da quali fattori sono causate le crescenti difficoltà dei giovani alunni, può, infatti, essere importante il ricorso a competenze diverse, non si può demandare, però, in via esclusiva all’ambito medico l’elaborazione e la messa in atto di strategie educative e didattiche che rispondano ai bisogni degli studenti e delle studentesse, in quanto è proprio ciò che fa scivolare la scuola verso quella deriva medicalizzante che sempre più si sta diffondendo. Una contraddizione in termini, peraltro, per una scuola nella quale si afferma che le differenze sono importanti e che occorre rispettare le caratteristiche individuali, tanto da richiedere una personalizzazione dei percorsi didattici, salvo ricorrere, poi, alla medicalizzazione, per dare risposte a modalità di apprendimento che non rientrano in parametri standardizzati (contraddizione più volte messa in evidenza rispetto al ricorso alle prove INVALSI, quale valutazione standardizzata degli apprendimenti, a fronte della richiesta di individualizzazione e personalizzazione dei percorsi didattici).
Psichiatria versus Pedagogia. Come sappiamo, vengono definiti studenti con bisogni educativi speciali (BES) tutte/i le/glialunne/i che hanno bisogno di una didattica personalizzata, anche in assenza di una diagnosi certificata. Infatti, rientrano nei BES: studenti con disabilità (certificata L.104/92); studenti con DSA; studenti con svantaggio socio-economico, linguistico o culturale; alunni stranieri di recente immigrazione; studenti con situazioni familiari difficili; studenti con problemi emotivi o relazionali, studenti che risultino figli adottivi. Dunque, vengono considerati BES, non solo studenti e studentesse con “disturbi” specifici, ma anche tutti quei bambini e ragazzi che evidenziano uno “svantaggio” sociale o semplici criticità proprie dell’età adolescenziale che possono interferire con il processo di apprendimento. A questo proposito basta leggere la premessa alle Nuove Indicazioni Nazionali, per comprendere come si stia seriamente rischiando di distorcere il senso dell’accoglienza degli allievi con disabilità, sancita dalla legge 517/1977, attraverso l’idea che ogni “difficoltà” che dovrebbe essere osservata e “letta” in base alle competenze educative dei docenti, viene circoscritta, osservata, monitorata e controllata più in base a competenze mediche che a quelle pedagogiche, mentre si relegano i docenti a un ruolo esclusivamente esecutivo e subordinato, dannoso per la loro professionalità e pericoloso per l’esperienza scolastica e per la vita delle studentesse e degli studenti a loro affidate/i. Bisognerebbe riaffermare, invece, la centralità dei docenti, rivendicandone la competenza, riconsegnando credibilità e prestigio sociale alla scuola e rafforzando il sistema scolastico, assegnando a questo,innanzitutto più risorse. Per realizzare tale obiettivo occorrerebbe, però, un salto culturale, che creasse discontinuità rispetto ad una scuola indirizzata (e non da ora) esclusivamente al “merito” e a risultati “standardizzati” che coprono le capacità dei singoli, soffocano le diverse intelligenze, non permettono l’emergere di differenti passioni e abilità; bisognerebbe che neuropsichiatri, psicologi e assistenti sociali non fossero considerati i soggetti titolati nel fornire linee operative e progettuali per il lavoro scolastico; sarebbe necessario che proprio gli insegnanti difendessero e valorizzassero il proprio ruolo, la centralità della progettazione dei percorsi formativi, senza delegarla agli specialisti che si rivolgono al singolo con “tecniche” che esulano dal processo di apprendimento nel suo complesso; sarebbe necessario, in una parola, far ritrovare alla scuola uno sguardo pedagogico, in base al quale leggere le dinamiche e le direzioni che prendono piede nella scuola. Conclusioni. Per evitare il rischio della medicalizzazione dovrebbero essere, quindi, gli stessi docenti a intraprendere una diversa rotta, rivalutando il concetto stesso di insegnamento, in una dimensione progettuale che evidenzi la responsabilità dell’insegnante rispetto alla soggettività dello studente, perché sono solo gli insegnanti a poter invertire la tendenza in atto, attraverso la propria esperienza e l’elaborazione della stessa, la formazione e l’aggiornamento qualificato e qualificante, il coordinamento in rete con i docenti anche di altre realtà scolastiche, la programmazione e la realizzazione condivisadi attività per l’apprendimento scolastico, la richiesta di classi meno numerose, l’aumento dei docenti e del personale per riuscire a svolgere adeguatamente mente la propria professione. Ed è proprio questo l’obiettivo che il CESP intende perseguire, rivalutando il compito educativo delle/degli insegnanti, rimettendo nelle mani dei docenti gli strumenti per rivendicare il ruolo centrale della professione docente all’interno della società, in modo che si torni ad investire sugli insegnanti, perché appare assolutamente necessario che questi si riapproprino di un protagonismo docente e della relazione educativa, accettando e valorizzando la diversità degli studenti, non comprimendola in una visione standardizzata dell’apprendimento e delegandola in via esclusiva a scienze mediche e sociali. Questo è un atto di cui si avverte la piena urgenza, soprattutto quando si osservano le difficoltà e il disagio nei quali sono immersi i nostri studenti e le nostre studentesse.
Anna Grazia Stammati