Come la prima, anche la seconda bozza delle Indicazioni Nazionali 2025 – pubblicata lo scorso 11 giugno – affida alla scuola il compito di sviluppare “l’autonomia dell’essere e la competenza del fare e dell’agire”. Un obiettivo che si traduce nel mandato educativo-didattico assegnato all’insegnante, tema centrale della riflessione pedagogica. La Commissione incaricata di redigere il documento ha beneficiato del contributo di pedagogisti/e che, impegnati nella ricerca, integrano l’interpretazione del proprio tempo e del suo sviluppo storico nella loro azione pedagogica. Ma, dalle Premesse culturali emerge una visione del mondo orientata, con finalità politiche che semplificano la complessità del presente e propongono un modello educativo fondato su valori normativi anacronistici. D’altro canto, la sezione sull’insegnamento della storia, veicolo della visione egemonica occidentale, conferma l’impianto ideologico del documento.
Nei due paragrafi Libertà, cura di sé ed etica del rispetto e Scuola che educa alle relazioni, all’empatia e al rispetto della persona, sembra affiorare, più che un riferimento alla pedagogia attiva – solo accennata attraverso il principio dell’autogoverno – una ripresa di tratti della pedagogia romantica, integrata con l’etica del rispetto, in linea con le prospettive di autori come De Amicis, Pestalozzi, Fröbel. Si sottolinea l’importanza di un’etica del rispetto come base per un autentico scambio educativo e propone un lavoro preventivo a scuola, fondato su un’“educazione del cuore” che favorisca l’esperienza di sentimenti come la fiducia, l’empatia, la tenerezza, l’incanto, la gentilezza.
Per chi conosce la storia della scuola, emerge il parallelismo con l’idea atemporale del “fanciullo tutto intuizione, fantasia, sentimento” contenuta nei Programmi del 1955, superata, a partire dai Programmi del 1985, da quella del bambino della ragione, orientato al futuro e, al contempo, profondamente coinvolto nell’esperienza concreta del proprio presente, capace di diventare cittadino libero, attivo e consapevole. Anche qui, la parte dedicata all’insegnamento della storia ci aiuta a delineare la rappresentazione dell’alunno/a del primo ciclocome soggetto ricettivo alla sola dimensione narrativa, senza capacità di analisi critica delle fonti. In modo coerente, l’impianto del testo, nonostante un richiamo all’educazione attiva, è dominato da un approccio normativo, in cui l’alunno/a è considerata/o parte di una comunità inclusiva solo a condizione che rispetti regole e limiti, e venga educato alla libertà attraverso la comprensione del principio di autorità. La conformità a un sistema predefinito di norme e doveri costituisce il principio guida della libertà, che, sebbene proclamata come valore centrale, viene di fatto regolata e delimitata da tale impianto normativo. È del tutto assente lo spazio educativo in cui il dissenso sia accolto come occasione di crescita e le regole possano essere discusse e rielaborate in modo dialogico. È una prospettiva tesa alla formazione di individui conformi, più inclini ad adattarsi che a trasformare.
Anche il rispetto, evocato anche come “l’obiettivo di un’educazione finalizzata al riconoscimento e alla valorizzazione delle differenze di ciascuno”, viene utilizzato in modo non problematizzato: in questa seconda bozza, la specifica sulle “differenze di genere” presente nella prima versione viene sostituita da un generico richiamo alle Linee guida per l’Educazione civica sul rispetto verso la donna e sulle relazioni corrette. Si tratta di una formulazione normativa che, focalizzandosi sul comportamento corretto nelle relazioni, ignora le cause strutturali della disparità di genere e promuove una visione tradizionale e ‘naturale’ dei ruoli familiari e di genere.
Affrontare il tema delle differenze di genere implicherebbe una critica alle costruzioni culturali, sociali e storiche che attribuiscono ruoli, aspettative e poteri differenti a uomini, donne e identità non binarie, nonché ai meccanismi di potere che generano disuguaglianze. Tale approccio trasformativo è in netto contrasto con l’impianto valoriale del documento, che privilegia la conformità al cambiamento.
Per educare alle differenze, il rispetto da solo non basta, perché può tradursi in una tolleranza passiva priva di reale comprensione. La stessa “educazione del cuore”, premessa di “occasioni didattiche di esperienza di sentimenti basilari come la fiducia, l’empatia, la tenerezza, l’incanto, la gentilezza”, appare inadeguata ad affrontare la complessità dell’educazione alle differenze: sentimenti ed emozioni non sono né universali né affidabili come guida etica perché sono profondamente influenzati da contesti culturali, sociali e individuali. La cosiddetta “educazione del cuore” rischia di ridursi a racconti toccanti che fanno sentire la diversità, senza una reale decostruzione critica. Così, l’altro viene umanizzato solo attraverso la sofferenza, rafforzando una visione pietistica e caritatevole che tollera, ma non riconosce davvero, la sua soggettività e autonomia, perpetuando asimmetrie di potere. Educare alle differenze richiede processi cognitivi complessi, come l’analisi critica delle dinamiche di esclusione e la decostruzione di stereotipi, per sviluppare categorie più inclusive di identità e cittadinanza. Senza questa base razionale, rispetto ed empatia restano fragili e manipolabili. Ma un simile approccio risulta incompatibile con l’impianto del testo analizzato.