Il precariato ai tempi del Merito
Secondo i dati forniti dal Ministero lo scorso 5 novembre, dei circa 870 mila tra posti comuni e di sostegno istituiti per questo anno scolastico, 217.693 sono stati assegnati tramite contratti al 31 agosto o al 30 giugno, più del doppio rispetto all’a.s. 2015-2016. Ne ricaviamo una percentuale di precariato pari al 25% – un insegnante su quattro – senza contare le supplenze brevi. Ad accrescere la gravità del quadro organizzativo in cui versa il nostro sistema di istruzione c’è anche la situazione del personale ATA per il quale la quota di precariato quest’anno sia attesta al 20%, praticamente il doppio rispetto all’a.s. 2016-2017.
Ci sarebbero tutte le condizioni per gridare allo scandalo e all’emergenza, eppure questo non sembra accadere. Anzi, questi dati li diamo quasi per scontati.
Quando negli anni scorsi mi è capitato di confrontarmi con i colleghi di ruolo in merito alla mia situazione di insegnante precaria ho potuto riscontrare due elementi ricorrenti. Da un lato l’emergere di un’enorme varietà di percorsi e di esperienze: all’interno di una sala insegnanti è tranquillamente possibile che non ci siano nemmeno due persone entrate in ruolo con la medesima procedura. Una frammentazione di possibilità e di storie che è segno tangibile dell’instabilità del sistema di reclutamento e della stratificazione normativa che si è susseguita negli anni. Allo stesso tempo queste conversazioni tra colleghi sono spesso scandite da un senso di ineluttabilità, dovuto al fatto che sì, il sistema sarà anche cambiato spesso, ma in fin dei conti il problema c’è sempre stato. E se c’è sempre stato, è normale che sia così. Finire nel paternalismo poi è un attimo: tutto sommato è anche giusto che sia così, alla fine un po’ di gavetta l’abbiamo fatta tutti. Per meritarsi il posto bisogna sudare.
Per il resto, di precariato nelle scuole praticamente non se ne parla. Il fenomeno è visibile al primo collegio di settembre, quando tutte quelle sedie vuote rendono spesso impossibile l’organizzazione delle classi e la distribuzione degli incarichi, e a giugno durante i vari “torna eh, l’anno prossimo”. Durante l’anno scolastico le settimane scorrono allo stesso modo per tutti i docenti, di ruolo e non, con gli stessi compiti, le stesse richieste, gli stessi doveri – anche se non gli stessi diritti. Anzi, sembra quasi che chi è precario spesso cerchi in ambito lavorativo la conferma che tutto sommato quel posto se lo merita. A fronte della svalutazione che spesso gli viene riservata dal sentire comune, dai media, talvolta anche dagli esponenti politici, mi sembra più frequente osservare particolare impegno, voglia di sperimentazione, ricerca di riscatto e volontà di dimostrare che si sa stare al passo e che si vale quanto il collega di ruolo, nonostante le ingiuste differenze contrattuali. Un efficientismo questo che, soprattutto se unito ad una scarsa consapevolezza del proprio ruolo come lavoratore o lavoratrice, può però rischiare di andare a costituire il terreno fertile per l’esercizio del potere del dirigente e del suo staff. Non è una novità, d’altra parte, che l’instabilità renda più fragili e soggetti a pressioni e che il processo di aziendalizzazione si nutra più facilmente di precarietà.
Procedure concorsuali
Le procedure concorsuali attivate negli ultimi tre anni, alcune delle quali ancora in corso, si sono rivelate un’autentica perdita di tempo, risorse e energie. Quest’anno a fronte di un contingente di 94.130 posti autorizzati, le diverse procedure non sono riuscite a coprirne nemmeno la metà. Se da un lato hanno riempito di idonei classi di concorso sature, in altri casi, hanno selezionato a tal punto da non riuscire nemmeno a compensare i numeri dei pensionamenti e alla fine, nonostante i concorsi, i numeri del precariato sono addirittura aumentati.
Com’era già accaduto nel 2016, anche questa volta non si è persa l’occasione di attivare la macchina del fango sulla categoria docente, immeritevole perché impreparata (“I prof sono impreparati, non superano l’esame, così le cattedre resteranno vuote” recitava Repubblica del 14 aprile 2021). Un’accusa che permette subito di trasformare la responsabilità dello Stato che sceglie di non investire sulla scuola in una colpa dei suoi lavoratori. Una colpa, per altro, che non ha reali conseguenze oltre l’umiliazione, dato che colui o colei che non ha meritato di passare un concorso andrà comunque benissimo per essere sfruttata come supplente ancora l’anno successivo.
A proposito di merito. Il concetto è particolarmente subdolo perché si annida in quella che può essere anche passione e voglia per questo lavoro, ma si porta dietro tutta la retorica della vocazione all’insegnamento. Insistere a parlare di merito a fronte di un sistema strutturalmente malato, che sfrutta lavoratori e lavoratrici senza garantirne i diritti è vergognoso oltre che paradossale. E poi: chi giudica il merito? E come lo giudica? E che effetto ha su chi viene giudicato? Penso a tutti coloro che in questi ultimi anni hanno provato una delle procedure concorsuali e per mille motivi non l’hanno passata. Perché superare un concorso dovrebbe rappresentare una nota di merito invece lavorare anni nella scuola no?
Il particolare caso del sostegno
Quando si parla di precariato non si può non nominare il sostegno. I posti di sostegno infatti aumentano di anno in anno, ma c’è una forte sproporzione tra il bisogno di personale e il numero di docenti specializzati a disposizione. Nel tempo si sono determinati due effetti. Se da un lato coloro che sono riusciti a specializzarsi sono stati stabilizzati piuttosto velocemente, dall’altro sono comunque rimasti numerosi posti, coperti, anno dopo anno, da docenti non specializzati.
È in questo ambito quindi che il flop dei concorsi è risultato più evidente, poiché le cattedre messe a bando erano maggiori dei candidati in possesso dei requisiti. Ciò è avvenuto perché le migliaia di persone che avevano maturato anni di servizio sul sostegno – magari solo sul sostegno – sono state trattate come se non avessero mai lavorato un giorno e sono state escluse dalla possibilità di partecipare. Il vuoto di posti è rimasto tale fino a che non si è deciso di assumere gli specializzati direttamente dalle GPS, ex articolo 59 decreto legge 25 maggio 2021, n. 73.
L’intero sistema dell’inclusione poggia su fondamenta estremamente fragili: da un lato su educatori ed educatrici sottopagati e privi di molti diritti sindacali, dall’altro su una classe docente fortemente precarizzata, talvolta alle prime esperienze, destinata a cambiare scuola ogni anno e con scarsissime prospettive di stabilizzazione.
Per intervenire sulla questione non basta nemmeno trovare candidati idonei: il problema è a monte, poiché si verifica un vero e proprio abuso strutturale dei posti in deroga. Di conseguenza moltissime delle cattedre da coprire sono già di definizione precarie. In molte regioni i posti di sostegno sono per la metà in organico di diritto e per l’altra metà in deroga. In alcune il dato di quelli in deroga supera addirittura il numero di quelli di diritto, per cui ci sono ufficialmente più insegnanti di sostegno precari di quanti ce ne possano essere di ruolo. Questo accade ancora, ad esempio, per il Piemonte e la Toscana.
Non è difficile immaginare quale sia il motivo alla base. Il sistema italiano di inclusione, uno dei più interessanti d’Europa tanto che le percentuali dei ragazzi con disabilità che non frequentano le scuole statali sono molto basse, è un sistema costoso, e in quanto tale è sotto attacco. Avere una parte dei posti strutturalmente precari significa non solo non assumere, ma anche avere più facilità, un domani, nel non autorizzarli.
Nel 2020 Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli ha affermato: «Noi guardiamo con favore a un modello dove un minor numero insegnanti di sostegno, tutti però altamente qualificati, sappia guidare e coinvolgere in nuove pratiche inclusive i colleghi curriculari, a loro volta responsabilizzati, incentivati e adeguatamente formati».
E il nuovo PEI andava proprio in questa direzione quando, non a caso, con decreto interministeriale tra MIUR e MEF, imponeva una revisione al meccanismo di assegnazione oraria di docenti ed educatori, in modo tale da tagliare sugli insegnanti e fare sempre più affidamento sulle cooperative.
I concorsi non bastano
Il caso sostegno è interessante perché permette di osservare nella pratica cosa significhi il modello corso abilitante + concorso e vedere che la procedura non funziona perché i concorsi per esami da soli non sono in grado di assicurare le assunzioni necessarie.
La legge 79/2022 dell’ex ministro Bianchi va esattamente a riproporre questa modalità anche per i posti comuni della scuola secondaria. Un meccanismo che non ha funzionato per il TFA su materia (rendendo necessario il concorso non selettivo del 2018), che non sta funzionando nemmeno per il sostegno.
Spesso nei modelli di reclutamento che sono stati proposti e attuati in Italia è accaduto che l’abilitazione diventasse un ostacolo nel percorso di assunzione, rendendo la strada lenta, difficoltosa e potenzialmente dispersiva. Con questa legge si tornerebbe ad abilitare gli insegnanti, ma senza dare loro alcuna garanzia di stabilizzazione. Si tornerebbe anche a riframmentare il precariato, tra abilitati e non abilitati, stimolando di nuovo quella guerra tra poveri che le differenze di titolo e percorsi inevitabilmente creano, poiché ognuno si trova a difendere le proprie fatiche reputandole propri meriti. Lo iniziamo a vedere sul sostegno, l’abbiamo visto dopo i TFA di materia o, in maniera ancora più divisiva nei contrasti che hanno riguardato infanzia e primaria. E, soprattutto, si tratta di un progetto che continua a non tenere nella giusta considerazione il fenomeno del precariato, prevedendo il concorso anche per chi ha raggiunto tre anni di servizio.
Il doppio canale di reclutamento
Se il precariato c’è sempre stato, l’unica riforma utile è quella che sappia tenerne conto come un fenomeno non eccezionale, ma strutturale alla scuola. La risposta definitiva al problema può essere soltanto quella di associare stabilmente, a fianco di procedure concorsuali garantite e regolari, il riconoscimento del diritto all’assunzione per chi ha lavorato a scuola come precario, assumendo per il 50% da concorsi ordinari e per il 50% da graduatorie costituite da chi ha svolto almeno tre anni di servizio che andrebbero messe in coda alle GAE. Si tratta cioè di difendere il doppio canale, di non permettere che venga cancellato con l’esaurimento delle GAE e di restituirgli lo scopo principale per cui era stato istituito con la legge 417/1989: riconoscere il servizio come requisito per l’immissione in ruolo, data l’impossibilità del nostro sistema di fare a meno dei precari.
di Silvia Casali