LE SVOLTE DELL’ UNIONE EUROPEA: UNA PROPOSTA POLITICA
1) L’IMPOSTAZIONE NEOLIBERISTA DELL’UEM
La politica monetaria
La costruzione dell’UEM è stata caratterizzata dalle ricette delle scuole neoliberiste più oltranziste: il monetarismo di M. Friedmann per le istituzioni e la politica monetaria, la Pubblic Choice e la Supply side economics di Chicago per la politica di bilancio. Tutte partono dal presupposto dogmatico che il mercato sia capace di autoregolarsi grazie alla piena flessibilità di prezzi e salari e, di conseguenza, la capacità produttiva sia sempre usata al massimo. Per cui, in base al monetarismo di Friedmann, qualsiasi finanziamento monetario della spesa pubblica in deficit provoca inevitabilmente inflazione: la domanda aggregata di merci va oltre la capacità produttiva, l’offerta non può adeguarsi, per cui aumentano inevitabilmente i prezzi. Quindi, la variazione della quantità di moneta del sistema deve essere determinata dalla variazione della produttività del lavoro o, preferibilmente, variare ad un tasso costante nel tempo per dare certezza ai mercati. L’input, comunque, è verso politiche monetarie restrittive al fine prioritario di prevenire l’inflazione. Si tratterebbe di regole tecniche, la cui gestione, quindi, deve essere sottratta al potere politico, garantendo l’indipendenza delle Banche Centrali. Il Trattato di Maastricht del 1992 ha previsto il divieto per le Banche Centrali di fare anticipazioni in c/c al Tesoro e lo Statuto della BCE del 1997 il divieto assoluto per la BCE stessa e per le BCN (Banche centrali nazionali) di comprare titoli sul mercato primario: quindi, la BCE e le BCN non possono stampare moneta e prestarla agli Stati o usarla per acquistarne i titoli alla prima emissione. Infine, l’obiettivo statutario primario della BCE è la stabilità dell’euro, quindi tasso d’inflazione di poco sotto il 2%, mentre la crescita e il contrasto alla disoccupazione sono solo obiettivi di secondo livello. Con questo il cerchio si è chiuso: le regole base della costruzione dell’UEM impediscono qualsiasi finanziamento monetario di spesa in deficit con una scelta apparentemente tecnica, ma che è politica a monte. E’ da notare che, invece, la Federal Reserve USA ha come obiettivi statutari la lotta sia all’inflazione che alla disoccupazione sullo stesso livello, può comprare titoli sul mercato primario e finanziare direttamente la spesa in deficit, come ha fatto a partire dalla grande crisi del 2008, sei anni prima del Quantitative Easing.
La politica di bilancio
Le scuole di Chicago e della Pubblic Choice hanno ispirato le politiche di bilancio dell’UE. I Chicago boys sostengono che il keynesismo si sia concentrato troppo sull’analisi della domanda aggregata, trascurando l’offerta: il finanziamento della spesa in deficit tramite l’emissione di titoli del debito pubblico sposterebbe risorse dagli investimenti produttivi alla spesa pubblica improduttiva, per cui avremmo meno sviluppo e, quindi, anche meno gettito fiscale e più deficit/PIL. La concorrenza dei titoli di Stato farebbe salire i tassi di interesse sui titoli privati e sullo stesso credito bancario, con conseguente calo degli investimenti, contribuendo all’ effetto di spiazzamento. In realtà, Keynes ha ampiamente dimostrato che il mercato non garantisce il pieno uso della capacità produttiva e, quindi, la spesa in deficit non solo non sottrae risorse ai privati (che le lascerebbero inutilizzate o le investirebbero nella speculazione finanziaria), ma tramite il moltiplicatore crea nuove risorse. L’ aumento della spesa pubblica in deficit incrementa la domanda aggregata, la produzione, l’occupazione, il reddito e il consumo, che a sua volta stimola ulteriori aumenti di reddito e dello stesso gettito fiscale, che può servire a colmare il deficit precedente. Non solo, ma tali effetti fanno migliorare le aspettative di profitto per le imprese e, quindi, non spiazzano gli investimenti privati, ma li incrementano. Naturalmente, tale modello funziona con bassi tassi di interesse e bassa evasione fiscale. La scuola della Pubblic Choice sostiene che gli attori della scelta pubblica (elettori, politici e burocrati) sarebbero strutturalmente portati per interessi egoistici e/o di potere a far esplodere la spesa in deficit, per cui la soluzione è il c.d. costituzionalismo fiscale: la politica di bilancio deve essere sottratta alla funzione di indirizzo politico mediante vincoli sovranazionali o costituzionali. Per cui, l’ UEM ha previsto, prima, i vincoli sovranazionali del Trattato di Maastricht e del Patto di Stabilità del 1997 (deficit /PIL massimo al 3% e avvicinamento del debito/Pil al 60 %) e poi il Fiscal Compact del 2011: il pareggio strutturale del bilancio andava posto in Costituzione o in legge ordinaria e il governo Monti con una maggioranza parlamentare superiore all’ 80 % ha scelto di riformare l’art. 81 della Costituzione, subordinando la garanzia dei diritti sociali a tale vincolo. Inoltre, in 20 anni il debito/PIL dovrebbe essere ridotto al 60 %, con tagli alla spesa e/o incrementi fiscali di 1/20 all’anno, il che significa per l’Italia manovre recessive di almeno 40 mld di €, una cura che ammazzerebbe molti cavalli sicuramente più in salute dell’economia italiana. Infine, i vari Fondi Salva Stati servivano strutturalmente solo per difendere gli Stati dagli attacchi speculativi sui mercati finanziari e non per le crisi economiche reali; anzi gli Stati che vogliono accedervi dovevano garantire di “mettere a posto i conti”, quindi politiche di bilancio restrittive e austerità, con tutti i costi sociali annessi, sperimentati duramente dal popolo greco.
Il quadro storico
Naturalmente la scelta del neoliberismo non fu adottata solo per mera convinzione ideologico-economica, ma per una serie di fattori internazionali e interni agli Stati europei, in parte dipendenti dal contesto determinatosi dagli inizi degli anni ’70 a seguito dello shock petrolifero e delle politiche monetarie USA. La disdetta degli accordi di Bretton Woods rese possibile ampie oscillazioni nel valore delle monete, ma al tempo stesso il dollaro restò centrale nelle transazioni internazionali. La costruzione dell’euro si inquadra nelle reazioni capitalistiche ai conflitti sociali degli anni 70. Presupposto indispensabile fu la sconfitta del movimento sindacale: passaggi significativi furono in USA i 12 mila licenziamenti dei controllori di volo decisi da Reagan nel 1981, con il duro colpo inferto al loro potente sindacato, e l’epocale conflitto tra la Thatcher e i minatori inglesi, con la chiusura di molti pozzi estrattivi. In Italia la svolta fu l’annuncio dei 14.469 licenziamenti alla Fiat nel 1980, lo sciopero dei 35 giorni e la marcia dei 40mila. La conseguente sconfitta sindacale aprì il varco ad investimenti ad altissima intensità di capitale con la robotizzazione e informatizzazione della produzione, la disoccupazione tecnologica, che insieme alle esternalizzazioni, all’applicazione parziale del modello Toyota di organizzazione del lavoro determinarono l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori. In questo quadro si collocano la sconfitta nel referendum sul decreto Craxi che congelava 3 punti di scala mobile, la conseguente completa abolizione della stessa nel 1992 e l’inaugurazione della politica dei redditi con gli accordi intercategoriali del 93. Gli aumenti salariali nei CCNL furono vincolati al tasso d’inflazione programmata deciso dal governo (dal 2009 all’indice europeo dei prezzi al consumo armonizzati- IPCA- depurato dal prezzo dei beni energetici importati) e quelli dei contratti aziendali agli aumenti di produttività. La successiva adesione della CGIL all'IPCA comportò una deroga solo parziale, con la possibilità di recuperare gli aumenti di produttività anche nel CCNL. Le politiche di moderazione salariale sono culminate nel “Patto della fabbrica” del 2018. Nel frattempo a partire dal pacchetto Treu del 1997 prese avvio la precarizzazione del lavoro, con l’introduzione progressiva di una miriade di contratti “atipici”, che hanno reso ancora più ricattabili i lavoratori, in particolare giovani, donne e migranti, con conseguente ulteriore indebolimento del loro potere contrattuale. Il risultato è stato il contenimento dell’inflazione, ma con un aumento dei prezzi e della produttività superiori all’aumento dei salari, con conseguente aumento dei profitti e delle disuguaglianze. Naturalmente l’alta inflazione non è un bene, in quanto colpisce indistintamente tutti, in particolar modo gli strati sociali più deboli e i piccoli risparmiatori, penalizzando i consumi primari e riducendo il potere d’acquisto dei salari. Ma la politica monetaria restrittiva e il conseguente aumento dei tassi d’interesse portano a minori investimenti produttivi, con conseguente crescita della disoccupazione, che poi porta a sua volta a rendere i lavoratori meno rivendicativi e ad accettare di lavorare anche con bassi salari, con conseguente contenimento dei prezzi.
2) LE ISTITUZIONI EUROPEE E IL DEFICIT DI DEMOCRAZIA
L’organizzazione istituzionale nell’UE prevedeva originariamente una concentrazione del potere di indirizzo politico e di quello legislativo nelle mani della Commissione europea (designata dai governi e senza la fiducia del Parlamento) e del Consiglio dei Ministri, organo a composizione variabile formato dai ministri competenti per materia dei governi nazionali. Il Parlamento aveva solo un ruolo consultivo. Inoltre, la regola base per deliberare era l’unanimità, quindi con un potere di veto dei singoli governi e una limitata cessione di sovranità, anche per il carattere tassativo delle materie oggetto di regolamenti e direttive. La mancanza del rapporto di fiducia tra il Parlamento e gli organi “esecutivi” e la concentrazione del potere legislativo nelle mani, in particolare, del Consiglio dei Ministri, il ruolo marginale del Parlamento determinavano il deficit strutturale di democrazia, anche rispetto al modello di democrazia rappresentativa degli Stati nazionali. L’evoluzione dei Trattati ha determinato un rafforzamento del ruolo del Parlamento. Regolamenti e direttive devono essere approvati sia dal Consiglio dell’Unione (formato dai Ministri) che dal Parlamento, salvo che per alcune materie (peraltro le più importanti), in cui quest’ultimo mantiene il tradizionale ruolo solo consultivo. Inoltre, il Parlamento deve approvare a maggioranza il Presidente della Commissione designato dai capi di Stato e di governo e, poi, la Commissione nel suo complesso, i cui membri sono decisi di fatto dai rispettivi governi. Infine, la maggioranza dei due terzi del Parlamento può sfiduciare la Commissione. Nel Consiglio dell’Unione per alcune materie si continua a decidere all’unanimità, ma il principio generale è diventato quello dell’approvazione a maggioranza qualificata, con il meccanismo del voto ponderato in base alla popolazione, per cui il voto di Germania, Francia, Italia pesano di più anche in termini formali. Non ultimo, le materie su cui l’UE può legiferare sono aumentate a dismisura, andando oltre l’originario elenco tassativo. Per cui il deficit di democrazia, pur essendo ridotto, permane in modo significativo. Se si pensa che di per sé la costruzione di una moneta unica senza uno Stato pienamente sovrano costituisce quasi un unicum, possiamo concludere che l’Unione Europea prima degli sconvolgimenti provocati dalla pandemia si presentava come una costruzione a metà del guado di un fiume tempestoso sia in termini politici che economici.
3) LA PRIMA SVOLTA NELLA POLITICA MONETARIA:
IL BAZOOKA E IL QUANTITATIVE EASING DI DRAGHI
Nel pieno della crisi finanziaria del 2012, con pesanti attacchi speculativi nei confronti dei titoli greci, italiani, spagnoli…, Draghi dichiara: “nell’ambito del nostro mandato, la BCE farà tutto ciò che è necessario per preservare l’euro. E credetemi: sarà abbastanza” Il Wathever it takes di Draghi è passato giustamente alla storia perché bastò quella dichiarazione per spegnere il fuoco della speculazione. Significava che, laddove i grandi speculatori vendevano, per esempio, titoli italiani per farne crollare il prezzo e farne salire i tassi d’interesse, la BCE, stampando moneta, avrebbe comprato a dismisura quei titoli per stabilizzarne prezzi e tassi. Chiaramente una Banca Centrale nazionale, come quella italiana, non ci sarebbe mai riuscita perché non dispone di quella potenza di fuoco, come dimostra l’esperienza del 1992. Vincendo ancora una volta l’opposizione dei custodi dell’ortodossia monetarista, in particolare il governatore della Bundesbank, dal marzo 2015 al dicembre del 2018 la BCE di Draghi compra titoli di Stato (e poi anche di spa non finanziarie) per 60 mld di euro al mese (diventati poi 80 e poi scesi gradualmente sino ad azzerarsi), con la più grande politica monetaria espansiva della storia dell’euro. L’obiettivo formale è far risalire il tasso d’inflazione di poco al di sotto del 2%, di fatto è quello di far ripartire la domanda aggregata, la produzione e l’occupazione. Ma deve farlo all’interno dei limiti statutari, per cui compra i titoli sul mercato secondario principalmente dalle banche e non direttamente dagli Stati alla prima emissione. Al tempo stesso il tasso d’interesse di riferimento della BCE diventa pari a zero e addirittura i tassi d’interesse sulle anticipazioni alle banche diventano negativi, se si impegnano a usare i soldi per crediti alle imprese. L’enorme disponibilità di liquidità per le banche dovrebbe spingerle a concedere più crediti a bassi tassi a imprese e famiglie per far ripartire investimenti e consumi. Il problema è il credit crunch: le banche preferiscono in parte tenere moneta liquida (o investirla sui mercati finanziari) se temono che imprese e famiglie non riescano a restituire i prestiti; le stesse imprese non chiedono crediti se hanno cattive aspettative sulla domanda; le famiglie dei lavoratori non si indebitano se i salari sono bassi e il lavoro precarizzato. Lo stesso Draghi ne è consapevole, laddove pone più volte il problema dei bassi salari, in particolare nel sud dell’UE, e di una svolta espansiva della politica di bilancio. In particolare, la Germania colloca la maggior parte delle proprie esportazioni nell’UE godendo dei vantaggi della moneta unica, che impedisce le svalutazioni competitive che hanno caratterizzato, per esempio, la storia della lira. Ma non ne rispetta le regole con un avanzo commerciale del 9%, laddove le norme prevedono un massimo del 6%. Ma, naturalmente, la Commissione UE non ha mai avviato la procedura sanzionatoria prevista. In ogni caso, Draghi termina il suo mandato impegnando la BCE a riprendere dal novembre 2019 gli acquisti di titoli per 20 mld al mese, vincolando ad una politica monetaria espansiva anche Christine Lagarde.
4) LA SVOLTA NELLA POLITICA ECONOMICA UE AI TEMPI DEL CORONAVIRUS
La politica monetaria
Dopo le prime incertezze e gaffe, anche Lagarde, di fronte all’intensità della crisi provocata dalla pandemia, ha ripreso la politica monetaria espansiva, prevedendo da marzo 2021 acquisti di titoli pubblici e privati con il programma PEPP (Pandemic Emergency Purchase Programme) per 1350 mld entro il giugno 2021; il 10 dicembre 2020 di fronte alla seconda ondata annuncia acquisti per altri 500mld, per cui la cifra complessiva diventa 1850 mld, e ne estende la durata temporale fino al marzo 2022; soprattutto ribadisce che adatterà gli acquisti “whatever is needed” – un eco del “whatever is takes”- , adattandoli in modo flessibile alle esigenze. Si tratta di una nuova eccezionale immissione di liquidità nel sistema, che si accompagna al tasso di riferimento, che rimane pari a zero, e ai tassi negativi su depositi e anticipazioni delle banche ordinarie: in pratica se le banche tengono moneta liquida presso la BCE devono pagare un interesse, invece di percepirlo; se usufruiscono di un’anticipazione devono restituire meno di quanto hanno percepito. Quindi, l’immissione di liquidità nel sistema è per la seconda volta straordinaria e per certi aspetti l’uso della politica monetaria a fini espansivi diventa strutturale. Ma, purtroppo, permane il limite statutario del divieto di finanziamento monetario del deficit, per cui la BCE non può destinare direttamente agli Stati la moneta aggiuntiva. Per effetto di tale politica di acquisti la BCE e le BCN detengono ormai quote significative del debito pubblico degli Stati sia pregresso che da Covid. Quasi 500 mld del debito pubblico italiano sono nella pancia del Sistema europeo delle Banche Centrali (SEBC), corrispondente a quasi il 20% del totale. Il debito italiano post Covid detenuto dal SEBC ammonta a circa 140 mld e arriverà a circa 200 a fine 2020. Già nel 2017 ci furono le prime timide proposte di cancellare questi debiti, per lo meno quelli detenuti dalle rispettive banche centrali nazionali, che assomigliano sempre di più ad una partita di giro; di fatto la Banca d’ Italia sta già rinunciando al pagamento degli interessi. Ora si sono levate voci anche autorevoli, come quella del Presidente del Parlamento Europeo, per cancellare i debiti detenuti dal SEBC o almeno quelli post Covid. Si tratterebbe di fatto di un finanziamento monetario ex post della spesa pubblica in deficit, fin qui vietato dai Trattati. Si tratta non solo di una manovra prevista dai trattati di economia, ma che è stata ampiamente praticata con modalità diverse dalla Riserva Federale degli USA e da altre Banche Centrali per combattere la crisi del 2008 e quella odierna. Se i movimenti sociali si assumessero finalmente l’obiettivo di cercare di modificare i Trattati e rendere strutturale la svolta a 180 gradi della politica economica dell’UE quella della rinuncia della BCE e delle BCN alla riscossione di tali crediti sarebbe un obiettivo da assumere a pieno titolo. Non vi sarebbero le conseguenze tipiche della cancellazione del debito in termini di perdita di affidabilità degli Stati, perché nel caso in questione sarebbero formalmente dei creditori a rinunciare al credito e non i debitori sovrani a cancellarlo e, soprattutto, i privati non ci rimetterebbero.
La politica di bilancio
Anche più significativa è stata la svolta nella politica di bilancio dell’UE. Il 19 marzo 2020 con una decisione storica la Commissione UE ha attivato per la prima volta la clausola prevista dall’art. 107 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione), sospendendo il Patto di Stabilità, per cui gli Stati hanno potuto fare spesa in deficit derogando al limite del 3% del rapporto deficit/ PIL e allontanarsi dal 60% del rapporto debito/PIL. Secondo le ultime stime l’Italia è arrivata a circa il 10% del primo parametro e al 158% del secondo. Si discute sulla data di scadenza della sospensione (fine 2021 o fine 2022), ma soprattutto sulla riforma del Patto, che non può essere riproposto secondo i vincoli ispirati al neoliberismo. Ma proprio perché gli Stati non possono indebitarsi all’infinito, il Consiglio europeo straordinario del 17-21 luglio ha deliberato il Recovery Fund, un piano di aiuti straordinari agli Stati per 750 mld di euro, di cui 390 a fondo perduto e 360 mediante crediti trentennali a bassissimi tassi d’interesse. Tali fondi saranno reperiti, nell’ambito del bilancio UE 2021 -27, con l’emissione di Eurobond: si tratta di un’altra decisione storica che ha infranto un altro tabù, perché la Germania e altri Stati erano stati sempre contrari all’indebitamento comune; la mediazione è stata che questi fondi non possono essere usati per rimborsare debiti pregressi, ma per le sei aeree di ricostruzione individuate. La procedura aveva subito un rallentamento perché Ungheria e Polonia avevano minacciato il veto per la clausola relativa al rispetto dei principi dello Stato di diritto, ma la minaccia del Recovery a 25 e della loro esclusione dagli aiuti ha disinnescato la mina del veto. Lo Stato a cui sono destinati più fondi è l’Italia con 209 mld, di cui una 80ina a fondo perduto, ma proprio sull’ Italia si concentrano i timori per il ritardo nella presentazione del Piano e per la crisi del governo Conte. Inoltre, 100 mld del SURE (acronimo bizzarro di State sUpported shoRt-timE) sono destinati a crediti agevolati (28,4 per l’Italia) per finanziare gli ammortizzatori sociali, in particolare la cassa integrazione. Altri 100 mld circa di crediti agevolati per gli investimenti delle imprese sono erogati dalla BEI (Banca Europea degli investimenti).
Infine, 400 mld del Fondo Salva Stati sono stati messi a disposizione già da giugno 2020 per gli Stati che decidono di farne richiesta, ma senza l’imposizione di politiche restrittive previste dal Fiscal Compact e con l’unica condizione di destinare tali risorse alle spese sanitarie dirette e indirette. Si tratta di fondi già disponibili, versati in passato dagli Stati, e non usati anche per la cattiva fama del MES dovuta all’imposizione di politiche di austerità alla Grecia e agli altri paesi che vi hanno fatto ricorso. Per la prima volta tali fondi sono utilizzabili “senza condizionalità” e per affrontare un problema dell’economia reale e non solo una crisi finanziaria. Si tratta di una prima applicazione della linea dei crediti agevolati (bassi tassi e lungo periodo di rimborso) prevista dalla riforma del MES che, però, è questione diversa dalla decisione di usare questi fondi.
5) LA SVOLTA DELL’UE E “I NOSTRI COMPITI”
E’ chiaro che i vertici politici dell’UE e soprattutto i leader politici di Germania e Francia non sono stati colpiti sulla via di Damasco da un’improvvisa redenzione dal liberismo. Ma hanno avuto la lucidità politica di capire che insistere con il neoliberismo non conveniva ai loro interessi nazionali: parafrasando una felice battuta di Prodi sui tulipani olandesi, chi compra i prodotti tedeschi se non i cittadini di Italia, Spagna, Portogallo? E come possono farlo se i loro paesi non si riprendono dalla crisi economica più intensa da quella degli anni 30 del 900? Ma questa consapevolezza non ci deve frenare nel cogliere la straordinaria opportunità politica di una fuoriuscita “sociale” dalla crisi. Il conflitto politico centrale si gioca sulla destinazione dell’enorme massa di denaro proveniente dall’ UE. E i movimenti sociali dovrebbero assumersi l’onere di provare a influenzare queste scelte e. al tempo stesso, lottare per rendere irreversibile e strutturale la svolta dell’UE, invece di indulgere nelle incrostazioni ideologiche del sovranismo di sinistra. L’impianto neoliberista dell’UEM ha spinto una parte dei movimenti sociali antagonisti a richiedere l’uscita dall’euro; altri non l’hanno mai condivisa perché storicamente le politiche neoliberiste sono più facili da perseguire quando si riduce il livello politico e dimensionale del soggetto della politica economica: il New Deal in USA coincise con un rafforzamento dei poteri dell’ Unione Federale rispetto a quello degli Stati; gli ultimi decenni di neoliberismo si sono accompagnati in Europa con il rafforzamento dei poteri delle Regioni e della varie autonomie locali. Ma ancor di più oggi il sovranismo di sinistra non ha ragione d’essere di fronte alla svolta dell’UE, rivelando solo una lentezza di riflessi nel cogliere le novità ed evidenziando la totale assenza di intervento e mobilitazione su questo piano politico.
Proviamo a delineare rapidamente quali potrebbero essere i punti essenziali di una fuoriuscita sociale dalla crisi. L’esigenza di disporre subito di reddito per fronteggiare le chiusure ha rafforzato la richiesta dell’estensione del reddito di cittadinanza verso un reddito universale, che renda più forte anche individualmente i lavoratori sul mercato del lavoro, mettendoli in grado di rifiutare lavori indecenti. Questo è un assioma nella “fisica” delle “leggi” economiche, ossia: sussidi adeguati permettono alle maestranze di rifiutare lavori con retribuzioni non congrue. Un reddito effettivamente universale costringerebbe di fatto le imprese italiane a non puntare più al contenimento della dinamica salariale, ma ad un aumento della produttività e della qualità dei prodotti. Reddito universale e lavoro di qualità in termini di diritti e garanzie per i lavoratori sono strutturalmente legati. Anche un salario minimo europeo, predeterminato per legge, spingerebbe verso l’alto la dinamica salariale e lascerebbe comunque alla contrattazione collettiva un ruolo centrale nella redistribuzione del reddito La disoccupazione tecnologica, dovuta all’informatizzazione e robotizzazione della produzione, può essere arginata con la riduzione del tempo di lavoro a parità di salario, magari coprendo temporaneamente l’aumento dei costi per le imprese con trasferimenti statali con vincoli di destinazione. Reddito universale, lavoro di qualità in termini di diritti e riduzione del tempo di lavoro determinerebbero un rialzo della domanda aggregata e una ripresa produttiva e dell’occupazione. Il tasso di partecipazione al lavoro e il tasso di occupazione dell’Italia sono i più bassi dell’Ue dopo la Grecia, con un gap particolarmente sensibile per l’occupazione giovanile e femminile, con un’alta percentuale di giovani che non studiano né lavorano. L’occupazione femminile, la più danneggiata dal lockdown, deve essere, invece, un investimento strategico per la crescita del paese, supportata con incentivi per l’assunzione di donne, da periodi di maternità prolungati e congedi parentali finanziati dalla spesa pubblica, da un assegno unico universale per ogni figlio a carico, da più efficaci servizi sociali e un migliore bilanciamento dei tempi di lavoro e di vita. L’occupazione giovanile va garantita con il lavoro di qualità in termini di diritti e la riduzione della precarizzazione, la riduzione del tempo di lavoro e l’abbassamento dell’età pensionabile (con la fine di quota 100 avremo l’età pensionabile tra le più alte d’Europa)
La decisione UE di puntare al taglio del 55% di emissioni di CO2 entro il 2020 e all’azzeramento entro il 2050 e, in genere, il taglio green di un terzo dei fondi potrebbe essere il volano per imporre una carbon tax europea e, in generale, un’inversione di tendenza in merito ai disastri ecologici e al cambiamento climatico provocati dal capitalismo, usando poteri di diritto pubblico. E’ sotto gli occhi di tutti l’urgenza di intervenire nel trasporto pubblico, non solo potenziandolo ma invertendo la tendenza verso l’aziendalizzazione e la privatizzazione che hanno caratterizzato gli ultimi decenni. I fondi del Recovery per la scuola, se usati per una digitalizzazione che provochi la subordinazione del docente alla macchina informatica o per asservirla agli interessi imprenditoriali con la scuola delle competenze addestrative, ne provocherebbero un ulteriore dequalificazione. Va rilanciato, invece, il modello di scuola pubblica previsto dalla Costituzione, basato su libertà di insegnamento, pluralismo didattico culturale e democrazia collegiale, puntando ad un’istituzione che rimetta al centro i saperi e lo sviluppo delle capacità cognitive per la formazione di un cittadino sostanzialmente libero e consapevole. Quindi, investimenti massicci per la fatiscente edilizia scolastica, riduzione del numero degli alunni per classe, aumento degli organici e azzeramento del più alto tasso di precarietà del lavoro in Europa, aumenti salariali per ridurre il gap con i salari europei. I 19,7 mld previsti dall’ultima versione del Recovery Plan per la sanità sono ancora insufficienti, ma tali fondi vanno non solo aumentati, ma destinati anch’essi ad invertire la tendenza verso l’aziendalizzazione della sanità pubblica e la sua privatizzazione, che sono stati tra le cause principali dell’altissima mortalità in Italia rispetto al numero degli abitanti. “Il profitto non deve entrarci quando si tratta di salute” diceva efficacemente un compianto medico di famiglia. Quindi, assunzione di medici e infermieri a tempo indeterminato, potenziamento delle strutture sanitarie pubbliche, radicamento sul territorio delle strutture sanitarie, presidi medici scolastici soprattutto con una logica di prevenzione. Inoltre, è assurdo che l’ UE abbia finanziato la ricerca sui vaccini senza che vengano messi effettivamente a disposizione di tutti: l’esclusiva ventennale dei brevetti di fatto impedisce l’accesso ai paesi più poveri, per cui come Confederazione Cobas abbiamo aderito alla campagna di raccolta firme per un’ ICE (Iniziativa Cittadini Europei) per una moratoria dei brevetti durante la pandemia. Rilancio dei diritti sociali verso una modalità di gestione dei servizi pubblici da “beni comuni” (scuola, sanità trasporti, telecomunicazioni), riconversione della produzione e della distribuzione per fermare il disastro ecologico e climatico, reddito universale, lavoro di qualità in termini di diritti e riduzione del tempo di lavoro a parità di salario potrebbero essere i primi punti salienti di un programma per un uso sociale dell’enorme massa di denaro proveniente dall’ Unione Europea.
Naturalmente anche l’Unione Europea va profondamente riformata sia nelle istituzioni che nella politica economica. Ci limitiamo solo ad un elenco di temi su cui lanciare il dibattito: superamento del deficit di democrazia con una piena centralità del Parlamento nella produzione legislativa, che andrebbe di pari passo con l’eliminazione del diritto di veto; revisione dei Trattati con l’eliminazione del tabù del finanziamento monetario della spesa pubblica in deficit, permettendo alla BCE di fare anticipazioni in conto corrente agli Stati e alla stessa UE e di acquistare titoli sul mercato primario; cancellazione dei titoli del debito pubblico in mano alla BCE e alle BCN, a partire da quelli Covid; Eurobond permanenti, nella convinzione che l’indebitamento comune rafforzi il legame politico tra gli Stati e costituisca una rete di protezione di fatto anche per i debiti statali pregressi; allungamento della sospensione del Patto di Stabilità e sua completa revisione; introduzione del principio per cui le multinazionali vengono tassate laddove producono beni e servizi e non dove hanno la sede legale, con conseguente riduzione dei paradisi fiscali e cancellazione del tax ruling, che permette alle multinazionali di concordare con i singoli Stati il trattamento fiscale.
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Il MES sanitario
I punti trattati fin qui hanno visto, pur con una diversità di accenti e impostazioni, una sostanziale convergenza tra i membri dell’EN della Confederazione Cobas. Abbiamo lasciato volutamente per ultimo il tema dell’uso o meno del MES sanitario, su cui si registrano più significative differenze, come d’altronde accade anche in Parlamento e nelle aree dei movimenti sociali della sinistra conflittuale. Con un’inevitabile schematizzazione si possono sintetizzare due posizioni.La prima sostiene che i soldi del MES sanitario non vanno usati per i motivi di seguito riportati. 1) Non vi sono condizionalità in termini di politica di austerità ma, non essendo stati modificati i Trattati, potrebbero essere sempre reintrodotti. 2) La gestione dei fondi del MES è in mano ad una struttura di tecnici e funzionari che è stata in prima linea nell’imposizione di politiche di austerità che hanno causato profonde sofferenze, in particolare, al popolo greco; per cui è strutturalmente portata in tale direzione. 3) I fondi del MES dovrebbero confluire nel Recovery Fund ed essere, quindi, gestiti direttamente dagli organi politici. 4) Nessun altro Paese ha chiesto l’uso dei fondi del MES; farlo per primi farebbe perdere affidabilità allo Stato italiano sui mercati finanziari e provocherebbe un rialzo dei tassi di interesse; invece, oggi i titoli di Stato sono già collocati a tassi d’interesse tra i più bassi della storia italiana.
La seconda posizione sostiene che i soldi del MES vanno usati con urgenza per i seguenti motivi: 1) Nel diritto internazionale tutti i patti sono da rispettare fin quando non cambiano le condizioni in termini di rapporti di forza (pacta sunt servanda …… sic rebus stantibus dicevano i latini); quindi, dire che gli accordi politici possono essere cambiati è una banalità applicabile a qualsiasi patto, anche al Next Generation EU. 2) La gestione dei fondi del Mes sanitario è, in ultima istanza, come di tutti gli altri fondi in mano ai decisori politici, come le vicende degli ultimi mesi hanno ampiamente dimostrato, con una serie di tabù storici caduti in rapida successione. 3) I fondi del MES sono strutturalmente diversi da quelli del Recovery fund. I primi sono stati versati dagli Stati e sono già disponibili da giugno 2020; i secondi devono essere reperiti sul mercato tramite l’emissione di Eurobond. 4) L’Italia è il paese che è stato colpito per primo dalla pandemia, ha un numero di morti in valore assoluto tra i più alti in Europa ed tra i primi al mondo come numero di morti rispetto al numero di abitanti; soprattutto è, dopo la Grecia, il paese con il più alto debito/PIL, che è già aumentato di quasi 30 punti in meno di un anno. Risparmiare centinaia di milioni di euro all’anno pagando tassi ancora più bassi di quelli di mercato non solo farebbe ridurre la spesa per interessi, ma renderebbe più affidabile il debito pubblico italiano. Infine, i bassi tassi sui titoli italiani dipendono principalmente dallo scudo europeo. 5) Avere a disposizione 36 mld subito con il vincolo di destinazione per le spese sanitare è un vantaggio in termini politici non un peso, perché il governo non destinerebbe mai un importo così alto per la sanità, come dimostra la vicenda dei fondi del Recovery Plan. Se i fondi del MES fossero stati usati a giugno l’impatto della seconda ondata sarebbe stato sicuramente minore; se fossero usati oggi l’impatto della terza ondata sarà sicuramente minore. E bisognerebbe sempre ricordarsi che dietro termini come “impatto” ci sono tragicamente migliaia di morti in più o in meno.
Esecutivo nazionale COBAS - Confederazione dei Comitati di base
5 febbraio 2021